L’idea di un viaggio fotografico nel Centro Direzionale di Napoli iniziò a farsi strada in me alcuni anni fa quando per lavoro ho frequentato per un paio d’anni, recandomi alcuni giorni la settimana, quest’area napoletana.
Questa idea si è concretizzata, però, quando mi è stato proposto di fotografare Napoli insieme agli amici delle associazioni fotografiche di cui faccio parte. Subito ne sono rimasto intrigato. Non volevo, però, raccontare la città partenopea, a cui sono fortemente legato, con immagini scontate: i bambini per strada, le piazze, i vicoli, i panni stesi per strada. Desideravo uscire dallo stereotipo della rappresentazione iconografica di Napoli e realizzare immagini insolite della città o, almeno, di una parte di essa.
Ha ripreso così corpo l’idea assopita, ma mai accantonata completamente, di raccontare una parte importante di Napoli: il Centro Direzionale. Mi sono subito messo all’opera alla ricerca online di documenti che potessero fornirmi informazioni utili al mio “viaggio”. Trovato tutto il necessario, era il momento di decidere come raccontare questo luogo.
La scelta del bianco e nero come linguaggio espressivo è stata per me quasi naturale mentre quella di rappresentare gli edifici con “linee cadenti” perfettamente verticali ha avuto lo scopo di sottolineare il distacco tra la modernità dell’architettura del quartiere e l’osservatore. Il luogo, grazie a queste due linguaggi espressivi, mi ha permesso di realizzare immagini non-solite e cioè immagini in grado di rappresentare ciò che, dal mio punto di vista, il Centro Direzionale di Napoli ha rappresentato per la città: un corto circuito urbanistico e sociale. Il mio “viaggio” nel Centro Direzionale si è svolto in una dimensione rarefatta, onirica dove la separazione tra l’essere umano, il cittadino, ed il suo habitat rappresenta forse il prologo della città del futuro.
La narrazione proposta, dunque, prova a giocare con le tonalità di grigi, con le inquadrature divise esattamente a metà, con le cornici determinate dai pilastri delle strutture, con la mancanza o con l’esasperazione della “profondità”, tra forme e volumi, con i riflessi, con le luci e con le ombre determinate dagli edifici, con le prospettive centrali, con la doppia raffigurazione del Vesuvio (quello reale e la sua rappresentazione realizzata da un ignoto writer), il tutto per restituire all’osservatore l’astrazione degli spazi che caratterizzano questo (non)luogo. Ma ecco che la presenza dei bambini in bicicletta, l’anziano sulla panchina ed i ragazzi che giocano a pallone nella piazza antistante il Palazzo di Giustizia, riconsiderano i termini di lettura degli scatti fotografici precedenti, restituendo (forse) la speranza che questo luogo potrà avere una sorte diversa da quella attuale, dove la solitudine e il degrado non saranno il futuro del Centro Direzionale di Napoli.
La mia valutazione critica del Centro Direzionale non è indirizzata tanto all’idea del progetto quanto alle conseguenze, in termini di socialità e di vivibilità, che la sua realizzazione ha rappresentato per i cittadini i quali decisero di viverci con la promessa, non mantenuta, di un quartiere moderno dove affari, politica e commercio si sarebbero intrecciati dando luogo a un nuovo concetto di vivere la città.
Mai, come in questo caso, ho avuto modo di constatare nel concreto quanto potessero essere veri i concetti espressi da Henri Cartier-Bresson quando affermava:
Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà. […] Fotografare è mettere sulla stessa linea […] la testa, l’occhio e il cuore. […] è un modo di capire […] è un grido, è una liberazione.
Vuoi sapere di più sulla storia del Centro Direzionale di Napoli? In questo articolo ne parlo approfonditamente: Il Centro Direzionale di Napoli, un quartiere senz’anima